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Arlena di Castro è un comune italiano di circa 900 abitanti della provincia di Viterbo, dista dal capoluogo circa 35 km. Appartenuta al ducato di Castro e Ronciglione, sorge sui resti di Contenebra, un antico insediamento etrusco, distrutto dai Romani durante le lotte per la conquista della Tuscia. Gli abitanti scampati al massacro, crearono in seguito due nuovi centri, Arlena e Civitella di Arlena. Nel medioevo le popolazioni si riunirono definitivamente nei pressi dell'attuale borgo, dove sono tuttora visibili le rovine del castello. Il paese venne poi rifondato dall'insediamento di un nucleo di coloni provenienti dalla località umbra di Allerona. Sembra sia stato il cardinale Alessandro Farnese a insediare qui alcune famiglie, ed, a titolo di favore e di incoraggiamento, gli concesse dei terreni ed esenzioni dalle tasse (1534). Da visitare, oltre ai resti del maniero, la chiesa Collegiata, la chiesa S. Rocco, la cappella del Santo Sepolcro e la chiesa di S. Giovanni.








la Chiesa di San Rocco


 








L’interno è organizzato su una sola navata con capriate a vista, scandita da due lesene semicircolari per lato. Sulla parete di fondo si apre un’abside quadrangolare.
Vi si conservano ancora alcuni modesti affreschi di fattura artigianale.
Il più antico, peraltro sovrapposto ad una pittura precedente, raffigura il Crocifisso, stagliato su un fondale composto da bande verticali gialle e rosse da leggersi, probabilmente, come colori araldici e ripresi anche nell’aureola. La figura del Cristo è molto chiaroscurata ma evidenzia una palese imperizia nell’uso della luce e nella formulazione della struttura anatomica, particolarmente accentuata nella atrofizzazione della parte destra del tronco. Comunque la lettura stilistico-formale del dipinto rimane molto incerta e difficile anche per alterazioni e ritocchi dovuti a vari interventi di restauro, tra cui uno molto recente.
In una fotografia degli anni sessanta, precedente quindi all’ultimo restauro, si nota il fondo completamente scialbato e decorato da una raggiatura dorata che si dipartiva dai quattro angoli formati dai bracci della croce; ed interessa notare, poi, proprio la migliore resa dello scorcio della parte destra del busto del Cristo e una più equilibrata dosatura delle ombreggiature. Infatti, la pesante ombra che segna il ventre subito sopra il perizoma e il fianco destro crea un effetto di appiattimento del prospetto del tronco, non rilevabile nella fotografia più antica. La cosa solleva più di qualche dubbio circa la rispondenza del restauro all’originario aspetto del dipinto. Quest’ultimo è attribuibile ad un pittore locale formatosi sulle suggestioni provenienti dall’ambiente artistico romano ed è ipoteticamente databile intorno alla metà del secolo XVI.
Sulla parete sinistra rimane, in un riquadro incassato nel muro, l’affresco. che decorava l’altare di 5. Belardinol5. Esso raffigura la Madonna in gloria tra i santi Giovanni Evangelista e Bernardino da Siena (Belardino). Le figure sono impaginate secondo il tradizionale schema piramidale il cui vertice è rappresentato dalla Vergine, assisa su un cuscino di nuvole e circondata ad un empireo di luce popolato di cherubini. I due santi poggiano invece, su un solido pavimento visto in prospettiva, in palese dicotomia con lo spazio trascendente occupato dalla Vergine. Sulla cornice a finto marmo che delimita il dipinto compaiono sui lati delle ellissi con il giglio farnesiano e, sul lato destro, una iscrizione dedicatoria con la data di esecuzione:
"Belardus Pepus hoc opusfierifecit suo bere proprio. A. A. 1619". E evidente la finalità votiva dell’affresco nel quale il committente fa inserire quale intercessore il santo omonimo Bernardino.
Pur nella modestia del fatto artistico, è da notare come i volti dei due santi siano indagati quasi con volontà ritrattistica e resi con una diligenza coloristica assente nel resto del dipinto. Peraltro anche in questo dipinto la resa approssimativa ed impiastricciata dello sfondo porta a sollevare qualche riserva sul restauro eseguito. Sul lato destro, compare un altro dipinto coevo o poco più tardo, raffigurante l’Immacolata circondata di angeli nell’atto di schiacciare il demonio, S. Bartolomeo e un santo vescovo. Anche qui la composizione è improntata alla più estrema semplicità: le figure principali sono disposte a piramide, i quattro angeli che fiancheggiano la Vergine formano un chiasmo. L’anonimo artefice denota una notevole modestia tecnica, particolarmente evidente nella grossonalità della resa dei tratti somatici e nella difficoltà di rendere gli scorci e le proporzioni, palese nel "raccourci" che rende tozza e improbabile la figura di s. Bartolomeo. Tradisce anche una inclinazione ingenua all’uso dell’episodio grottesco, proprio del narrare popolaresco (si veda il diavolo, il cui aspetto più che terribile è patetico, vinto e calpestato).
Decisamente di più alta qualità è, invece, la piccola statua lignea raffigurante s. Rocco, alloggiata nella nicchia centrale dell’abside. Il santo è colto in una intensa espressione di mistica sofferenza in cui è patente la volontà di ricerca introspettiva.
La statica equilibrata della figura che declina verso suggestioni classiciste, porta ad inserire l’opera nell’ ambito della plastica settecentesca, pur con citazioni attardate tipicamente seicentesche, quali il mantello dal panneggio abbondante, spezzato e risentito, fortemente mosso. Anche questa statua è stata oggetto di restauro nell’ambito della campagna di intervento successiva al terremoto del 6 febbraio 1971.